ENNIO SERVENTI - CANAGLIA PROLETARIA - FERRUCCIO GHINAGLIA 1921-2021
ENNIO SERVENTI
“CANAGLIA PROLETARIA”
“Su canaglia
incrudelita
che la morte non ci è
nuova
lo sapete già per prova
come muore un
spartachian”[1]
“Quando Pozzoli
discende
pian piano dallo scalon
comunal
noi di fascisti non ne
vogliam
col manganello in man”[2]
(Canti proletari)
D |
i Ferruccio Ghinaglia ci
sono rimasti otto articoli riportati a corredo di un saggio di Clemente Ancona
pubblicato sul numero 12 della Rivista Storica del Socialismo nel gennaio del
1961. Nel 2001, ricorrente l’ottantesimo anniversario della sua uccisione ad
opera di sicari fascisti, saggio e due articoli (“Santa Canaglia” e “Congresso
Nostro”) vennero ripubblicati a cura delle federazioni di Cremona e di Pavia
del Partito Rifondazione Comunista. Nel meritorio opuscolo edito dalle federazioni
del PRC gli articoli, che riassumono differenti eventi di quei mesi, non sono
pubblicati in ordine cronologico, non è dato sapere se frutto di distrazione o
di scelta. Il più antico degli opuscoli commemorativi della figura di Ghinaglia
che ci è pervenuto è quello edito dalla federazione del Partito Comunista
Italiano di Pavia nel cinquantesimo anniversario della fondazione del partito,
coincidente con quello della uccisione di Ghinaglia. Si avvale di una
prefazione di Luigi Longo segretario generale del Partito Comunista Italiano
che, un po’ forzatamente, ritrova nella chiusa di uno scritto di Ghinaglia “[…] il germe” della futura politica del
PCI. Longo commenta alcuni degli scritti di Ghinaglia depurandoli dalle
asprezze che l’autore usa nei confronti dei “riformisti”, certamente attento a
non inasprire i rapporti con i socialisti di quella seconda metà del Novecento
con il rispolvero di polemiche che appartengono alla storia ma che ancora ci
accompagnano. Con la stessa cesura i commenti vengono ripresi nella scheda dell’ANPI
curata da Giuseppe Azzoni, edita in occasione del centenario della uccisione di
Ghinaglia.
L’opuscolo pavese riporta
anche il commento all’ultima opera di Romain Rolland al quale, nel 1915, venne
conferito il premio Nobel per il suo libro “Al di sopra della mischia”. L’articolo
in questione venne originariamente pubblicato il 3 gennaio 1917 su Lo Studente, giornale studentesco
cremonese fondato da Ghinaglia. L’articolo non venne ripubblicato sugli altri
opuscoli commemorativi tranne che in quello pubblicato dalla federazione del
PCI di Pavia. Clemente Ancona in una nota che riportiamo in calce[3],
trascrive la sintesi delle critiche che Ghinaglia muove all’autore del libro.
Gli scritti di Ghinaglia che
ci sono pervenuti sono pochi per uno come lui che, fin da studente, fondò
giornali. Alcuni di questi ebbero vita brevissima, altri corta, ma il rilevante
numero di fogli da lui fondati, altre a quelli con i quali collaborò, sono
sufficienti a tratteggiarne la figura ed il livello del suo partecipare alla
battaglia politica. Nei brevi ed essenziali otto articoli che sono giunti fino
a noi, possiamo individuare, all’interno di un contesto di forte antagonismo di
classe, tre filoni di idee: l’antimilitarismo, la costruzione del partito rivoluzionario,
la lotta al riformismo. Questi rimarranno i cardini ideali della sua azione
politica che il sicariato fascista farà breve.
Contestualmente al dibattito ideale non manca l’impegno concreto di Ghinaglia nel promuovere e attivamente appoggiare le lotte intraprese dal proletariato pavese. Rilevante sarà il suo impegno diretto nel sostenere la lotta di braccianti e contadini durante il lungo sciopero del 1920 nelle campagne pavesi. “L’astensione dal lavoro si protrasse per ben cinquanta giorni. Fu uno dei più lunghi, aspri combattuti scioperi che la provincia di Pavia abbia conosciuti. […] presto assunse una fisionomia politica, dilagando dopo sei settimane in sciopero generale […] coinvolgendo tutti o quasi tutti i settori della produzione […] e non solamente quelli agricoli. Terminò con una notevole vittoria sindacale[4] che però i dirigenti socialisti non seppero trasfondere in apprezzabili risultati politici, secondo le esigenze vive del proletariato”.[5] L’impegno di Ghinaglia nel sostenere lo sciopero fu notevole. La Plebe sottolinea la sua partecipazione come oratore ufficiale in alcune delle più importanti manifestazioni proletarie che si tennero in quel periodo. A lui si deve il “gran merito della costituzione e della efficienza di due fondamentali strumenti dello sciopero: le guardie rosse e i ciclisti rossi. […] Le prime ebbero il compito di impedire il crumiraggio […], di proteggere le manifestazioni popolari […] e gli stessi contadini dagli attacchi e dalle rappresaglie degli agricoltori”[6]. I ciclisti rossi furono un utile strumento per mantenere i contatti fa le varie strutture proletarie impegnate nello sciopero.
Gli scritti si rivolgono
principalmente ai suoi compagni di partito, a quelli che si riconoscono nella
corrente “riformista” e, con minore asprezza, agli “unitari” serratiani, articoli
prevalentemente stesi in preparazione dei congressi della Federazione Giovanile
Socialista e del Partito Socialista Italiano che erano due organizzazioni
distinte. Fa eccezione, a nostro avviso, l’ultimo dei componimenti: “Santa
canaglia”. In questo sembra prevalere una riflessione, un consuntivo fortemente
emotivo più che una analisi leniniana.
Contro i riformisti del PSI
la diatriba è aspra, Ghinaglia preconizza loro un percorso politico “osceno” non dissimile a quello di
Scheidemann e di Noshe. “Aleggia intorno
a noi lo spirito di Karl Liebknecht. L’assassinato non può stare con gli
assassini” scrive su Vedetta Rossa
il 12 settembre 1920.
La certezza di una imminente
rivoluzione che il biennio rosso aveva fatto intravedere volge al termine, gli
eventi portano da un’altra parte “L’inizio
della dittatura proletaria ha subito un rinvio […] le fabbriche che erano
diventate fortezze nelle mani degli operai tornano nelle mani dei padroni […]
deploriamo l’abbandono delle nostre fortezze” scrive Ghinaglia già nell’ottobre
dell’anno precedente a conclusione dello sciopero nel Pavese, con una evidente
critica alla Camera del Lavoro retta da dirigenti che si richiamano al
riformismo socialista.
Quando Ghinaglia scrive
“Santa canaglia” il Partito Comunista d’Italia è stato già fondato da un paio
di mesi, non tutti i delegati al congresso del PSI che hanno votato la tesi
“comunista” partecipano alla fondazione del nuovo partito, con i riformisti i
conti sono stati fatti definitivamente, le polemiche precongressuali
appartengono al passato. L’auspicio, la certezza è che i compagni rivoluzionari
rimasti nel PSI “quelli che ancora non
sono venuti ci verranno presto”.[7]
Non, quindi, una compromissione fra posizioni politiche diverse ipotizza
Ghinaglia, ma l’abbandono da parte dei rivoluzionari rimasti nel PSI delle
motivazioni che li indussero a non lasciare il vecchio partito, condizione
indispensabile per la loro adesione al PCdI.
In “Santa canaglia”, ultimo
suo scritto, non c’è accenno a nessun tipo di organizzazione che possa
supportare la rivolta dei proletari. Se pur riprodotto nel fascicolo, Longo non
lo cita e non lo commenta nella sua prefazione, la stessa cosa fa Clemente
Ancona: viene da chiedersi perché. Giuseppe Azzoni, nella recente ricostruzione
degli eventi di quei mesi curata per conto dell’ANPI cremonese, lo definisce
come: “grido indignato contro la criminale crescente violenza squadrista”.
Certamente c’è anche questa, quella stipendiata degli “incendiari e degli assassini” ma prevalente sembra essere la
violenza che “logora i mille polmoni
nelle galere” che in quel 1920 non sono nelle disponibilità delle
“squadre”, che uccide i difensori
delle barricate marchigiane, che assalta la barricata dove si “combatte fino all’ultima cartuccia”.
Quelle che resistettero a Italo Balbo vennero più tardi, nell’anno della marcia
su Roma.
Ghinaglia pare sentire la
necessità di un consuntivo degli avvenimenti di quei giorni. L’articolo è
pubblicato su Falce e Martello esattamente
due mesi dopo la ormai tardiva fondazione del Partito Comunista d’Italia.
Riprende nel titolo e nel testo una formulazione forse coniata da Carducci, il
sostantivo è molto usato dall’anarchismo. Il termine canaglia, volgo, plebe,
sarà spesso presente nei canti del libertarismo, sarà usato in un verso
turatiano e, più tardi, anche in inni comunisti. La Plebe era in quegli anni il nome del giornale della federazione
socialista pavese. Soppressa nel periodo fascista la testata sarà ripresa nel
1945 dopo la liberazione dal fascismo.
Lo scritto è direttamente
rivolto alla “Santa Canaglia”, salta ogni intermediazione con il partito e la
Camera del Lavoro che ancora maggiormente la rappresenta. “Santa canaglia che scendi brandelli della tua carne nella lotta impari
ed irridi alla morte mentre cerchi una vita più umana, tu non puoi morire, l’avvenire
è tuo”. Nonostante uno sguardo fiducioso all’avvenire nell’articolo prevale
un mesto senso di tristezza, di scoramento per non dire di sconfitta,
percepibile fin dalla prima riga: “Giorni
tristi, pel canagliume proletario […], La rivoluzione è domata […]” prosegue, ed è l’unica volta in tutto l’articolo
che viene citata. Vi è un ripetuto accenno alla “rivolta”, al “ribellismo
proletario”, allo spontaneismo, “al sacrificio”. Scrive Ghinaglia: “L’inno della ribellione sale al cielo in
quei giorni tristi, pel canagliume proletario. Il borghese sogghigna beffardo.
Passano dei funerali, si scavano delle tombe. Si leva al cielo il pianto delle
madri e l’imprecazione dei detenuti. Corre sangue per le strade, si versano
cocenti lacrime nelle case, si logorano mille polmoni nelle galere. È sangue
plebeo, sono lacrime proletarie, sono i polmoni della canaglia”. Un
ripetuto richiamarsi alla rivolta, allo spontaneismo, all’istintivo ribellismo,
un invito alla rivolta che già fu di quelli che nel beneventano, sotto la
pioggia, andarono per propagandare “l’esempio
del fatto”. Sembrano lontani i giorni di quando si auspicava una proletaria
“rigida disciplina!”.
“[…] Davanti ai giudici il bersagliere d’Ancona pronuncia il suo atto di
fede, il suo grido di ribellione […]” quasi un inno al
liberatorio ammutinarsi dell’undicesimo reggimento bersaglieri in procinto di
essere imbarcato per Valona, un canto al solidale insorgere del canagliume
anconetano sconfitto dal fuoco delle batterie della cittadella, dai cannoni
degli incrociatori ancorati in porto e dall’assalto di guardie regie e
carabinieri che lo stato ha mandato contro di lui: “[…] corre sangue per le strade […] è sangue plebeo”!
“Soldato proletario/che parti per Valona/non ti scordare il popolo d’Ancona/che
impose col suo sangue/la tua liberazione/sol la rivoluzione/ci fa goder la
libertà/ Soldato proletario che mamma tua lasciavi/ e schiavo andavi a trucidar
gli schiavi/no, non è là il nemico, tra i bei monti e i mari/lungi non lo
cercare il tuo feroce tiranno è qui” (Raffaele Mario Offidani, 1920). Dal 1914, con una
missione “umanitaria”, l’Italia aveva messo piede a Valona (Vlora). Dopo la
fine della guerra costruì attorno alla città un ampio campo trincerato. Fin
dalla fine del 1916 la presenza italiana in Albania si era estesa ad altre
città. Lo sviluppo del Movimento di
Liberazione Albanese costrinse il contingente italiano, forte di circa
ventimila soldati, a ritirarsi sulla costa concentrandosi presso Valona. L’11
maggio il campo trincerato venne attaccato dai patrioti albanesi. In patria la
stampa italiana informa che si combatte a Valona. Il generale Piacentini, capo
della spedizione italiana, comincia a chiedere rinforzi. A Brindisi, Trieste ed
Ancona contingenti di truppe vengono predisposte per soddisfare le richieste
del generale. Nei porti delle città adriatiche sono alla rada piroscafi pronti
per il loro trasporto in Albania. La contrarietà dei soldati ad essere inviati
a Valona, oltre che per la insalubrità della zona infestata dalla malaria,
trova stimolo nella robusta tradizione internazionalista del proletariato italiano
avversa alle imprese coloniali. Ad Ancona, nella caserma Villarey, è di stanza
l’11° reggimento bersaglieri. Nelle prime ore del mattino del 26 giugno 1920,
prima di essere avviati al porto per l’imbarco, al grido “via da Valona!” i
soldati si ammutinano, disarmano gli ufficiali e s’impadroniscano della
caserma. Con un’auto blindata tentano una sortita all’esterno ma vengono
respinti da contingenti di guardie regie e carabinieri che circondano la
caserma impedendone l’uscita. Si accende una sparatoria fra gli assediati e gli
assedianti. Il proletariato anconetano, di radicata militanza socialista,
anarchica e repubblicana, accorre in sostegno ai bersaglieri. Vengono erette
barricate in vari punti della città. Dalla caserma, che rimane circondata ed
isolata, gli scontri si spostano ai quartieri popolari che vengono attaccati da
contingenti di carabinieri, guardie regie e reparti militari fatti affluire
anche da Roma. Con una accentuazione internazionalista dalle barricate
proletarie si grida “via dall’Albania!”, contro queste sparano i cannoni della
cittadella e dei cacciatorpediniere ancorate nel porto. La rivolta di Ancona,
repressa nel sangue, indusse il governo Giolitti a ritirare il contingente
militare ed abbandonare l’Albania. Lo scontro è tra il popolo e lo Stato con il
suo governo: questo non può essere sfuggito a Ghinaglia quando inserì “il bersagliere
di Ancona” fra i fatti tragici citati in “Santa canaglia”, una citazione che
vale una sottolineatura, qui il fascistume non c’entra. Il 19 febbraio del 1921
su Falce e Martello ribadì il
concetto, “[…] non dobbiamo illuderci che sia solamente il fascismo che terrorizza
le piazze d’Italia. È la borghesia con il suo governo, le sue spie, i suoi
armati […]”. Constatato il rischioso
uso dell’esercito nell’opera di repressione dei conflitti sociali dove i
soldati molto spesso solidarizzavano con i dimostranti, nel 1919 il governo
Nitti aveva istituito il militarizzato corpo della “Regia Guardia di Pubblica
Sicurezza”. Manifestazioni di solidarietà con i bersaglieri e il popolo di
Ancona si svolsero in tutta la Romagna, nelle Marche ed in altre parti d’Italia.
A Cremona da parte dei dirigenti sindacali, che La Tribuna qualificò come i “soliti
Malatestini” con chiaro riferimento all’anarchico Errico Malatesta, fu
indetto uno sciopero di quarantotto ore. Nel primo pomeriggio del 27 circa un
migliaio di operai abbandonarono il lavoro e si diressero verso il centro;
trovandolo sbarrato dai militari si adunarono alla “Casa del Popolo”[8].
Dei bersaglieri individuati come iniziatori dell’ammutinamento di Ancona e
processati ricordiamo Tommaso Nasini. Venne condannato a cinque anni di carcere
in parte scontati. Nato a Cori (ora provincia di Latina) Tommaso Nasini morì a
Cremona nel 1961. Di certo non si sa altro. In città, a Cremona, si ricorda che
in via del Giordano all’angolo con via Lungastretta, in una vecchia casa da
decenni disabitata, ancora negli ultimi anni del 1940 e forse oltre, esisteva
una osteria detta “de Nasìin”. L’uso del nome con terminazione rustica “ìin” in
alternativa a quella urbana in “éen” dallo stesso significato di naso piccolo
(nasìin=naséen) può forse voler sottolineare la volontà di indicare esattamente
il cognome dell’oste - che avrebbe forse potuto essere il bersagliere d’Ancona
- troncandolo, come spesso è in uso nel dialetto cremonese, della vocale finale
(Serventi=Servènt, Somenzi=Suméens, Nasini=Nasìin). Un tenue indizio che
stimola una curiosità.[9]
Cenni storico-biografici. Ferruccio Ghinaglia nacque il 27
settembre 1899 a Casalbuttano in provincia di Cremona, ultimo dei quattro figli
di un piccolo commerciante e di una maestra. Iscritto al liceo di Cremona,
fondò giovanissimo Lo Studente, un
foglio antimilitarista di chiara impronta socialista, che gli procurò la prima
esperienza di persecuzione poliziesca. L’eccezionale rendimento negli studi lo
portò a Pavia nell’autunno del 1917 per sostenere, con esito positivo, l’esame
di concorso per un posto gratuito di alunno presso il collegio Ghisleri.
Ghinaglia si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università di Pavia, ma non
poté iniziare l’anno accademico: chiamato alle armi, frequentò il corso allievi
ufficiali di Modena, dal quale venne espulso per l’aperta professione di idee
socialiste e successivamente, tornato a Cremona, fondò e diresse il giornale Il Bolscevico[10],
prendendo decisamente posizione per l’ala rivoluzionaria del PSI.
All’inizio del 1920 ritornò a
Pavia per riprendere gli studi. La sera del 21 aprile 1921, dopo aver
partecipato a una assemblea della lega dei mutilati da lui fondata, Ghinaglia
si incamminò con alcuni compagni verso Borgo Ticino dove era stato chiamato a
partecipare alla riunione dei soci di una cooperativa. Aveva appena varcato il
vecchio ponte coperto: una squadra fascista appostata nell’ombra aprì il fuoco
uccidendolo all’istante.
[1] “Canto dei malfattori” di Pietro Gori. La strofa riportata è come la cantava la sarta del secondo piano. Rispetto al testo originale sono modificate due parole: nel primo verso l’originale “vigliacchi” diventa “canaglia” e, nell’ultimo, “malfattor” è sostituito da “spartachian”. Probabilmente l’anonima modifica si colloca dopo la sconfitta dei moti spartachisti di Berlino del 1919. Due parole che cambiano il senso dell’intera strofa.
[2] Tarquinio Pozzoli, sindaco di Cremona
fra il 1920 e il 1921 fu, come Ferruccio Ghinaglia, tra i fondatori del Partito
Comunista d’Italia. La strofa la cantava la sarta del secondo piano sull’aria
di una canzone che parlava di un “abat-jour che diffondi la luce blu” in voga
in quegli anni. La sarta raccontava che il canto proletario veniva cantato
dalle “guardie rosse”, e che queste attendevano la fine delle riunioni comunali
per scortare fino a casa e proteggere da eventuali agguati fascisti il sindaco
Pozzoli.
[3] Rivista Storica del Socialismo n. 12,
gennaio-aprile 1961. Sull’argomento riportiamo una nota di Clemente Ancona che
sintetizza il pensiero di Ghinaglia al riguardo. L’articolo di commento, pur
esprimendo chiaramente i sentimenti umanitari dell’autore del libro, è molto
cauto quando si riferisce alla ideologia di Rolland. Eccone alcuni tratti: “[…]
non ci stanchiamo (di leggerlo), benché (l’opera) non abbia l’intreccio del
romanzo né l’armonica costituzione di un trattato filosofico […] anche se
dissenzienti dalle sue opinioni […]. Il dolore e lo scempio dell’umanità […]
ispirano la sua opera, gli fanno dimenticare di essere francese per sentirsi
solamente uomo. Egli solo è e vuol essere efficace antidoto alle più assurde
chimere di conquista, alle più velenose teorie di odio […].”
[4] Una delle conquiste che i lavoratori
della terra pavesi ebbero con quello sciopero del 1920 fu l'ottenimento dell’“imponibile
di mano d’opera”. La stessa rivendicazione fu alla base degli scioperi del
1947/48 del bracciantato agricolo cremonese, ben ventotto anni dopo! Oltre all’imponibile
venne introdotto, nel patto colonico cremonese di quegli anni, anche un “super
imponibile” finanziato per una quota dai lavoratori stessi. Si trattò di una
anticipazione di quelli che furono i “contratti di solidarietà” dei nostri
tempi, stipulati, prevalentemente, nelle categorie dell’industria.
L’“imponibile” fissava obbligatoriamente
un certo numero di lavoratori per una stabilita superficie del terreno
aziendale. A quel che, con una formulazione un po’ elastica, riferisce Giovanni
Chiappani che fu segretario provinciale della Federbraccianti cremonese, tali
misure permisero “il collocamento al lavoro di tutta, o di quasi tutta, la mano
d’opera (agricola) disoccupata”.
[5] Clemente Ancona, in “Rivista Storica
del Socialismo”, n.12 gennaio-aprile 1961, p. 192.
[6] Ibidem.
[7] Vedetta
Rossa, organo della Federazione Provinciale Socialista Pavese 11 febbraio
1921. Firmato “Noi”.
[8] Le notizie sui fatti di Ancona sono
liberamente desunte da: Ruggero Giacomini, “La rivolta dei bersaglieri e le
giornate rosse”, centro culturale La Città Futura, quaderni del Consiglio
Regionale delle Marche.
[9] Abbiamo ricercato nel Repertorio dei fascicoli del casellario politico della Questura depositato in Archivio di Stato di Cremona. Lo schedario trascritto sul sito dell'ANPI di Cremona e stampato in un volumetto a cura di Giuseppe Azzoni, conserva i fascicoli attivati principalmente col fascismo, ma con documenti anche precedenti. Riguardano gli anni di fine '800 fino al 1945. Non abbiamo trovato nessuna scheda intestata a Tommaso Nasini. Per completarne, quanto più possibile la personalità ed il ruolo che ebbe nella rivolta alla caserma Villarey, trascriviamo la denuncia fatta nei suoi confronti dal generale Tiscornia, Comandante della Divisione Militare, ed inviata al Procuratore del Re di Ancona. “Nasini Tommaso di ignoti da Cori (Roma) cl. 1900 soldato 11° bersaglieri compagnia deposito. Accusato dal Sottotenente Desiderio, dal Capitano De Nicola […] di essere stato uno dei promotori della rivolta, uno di quelli che maggiormente inveirono contro gli Ufficiali, nonché di avere incitato i compagni a fare causa comune con i rivoltosi, e di essere uscito dalla caserma a bordo della autoblinda. Militava notoriamente nel Partito Socialista Massimalista”.
[10] La ricerca fatta nel Repertorio dei
fascicoli del casellario politico della Questura di Cremona citata alla nota 9
non è stata inutile: ci ha permesso di ritrovare, in modo assolutamente
casuale, la scheda intestata a Ventura Aldo di Francesco e Moroni Anna, nato a
Soresina (CR) il 10 ottobre 1902, professore in agraria in diverse città. Così
continua la scheda compilata dall'informatore: “[…] Fu socialcomunista, redattore de “Il Bolscevico” giornale
cremonese dei giovani comunisti (studente Aldino). Buona condotta ma non
ravveduto. Iscritto al sindacato e all'O.N.B.”. Si deduce che rimase sempre
di idee socialcomuniste. Il Bolscevico
fu fondato da Ferruccio Ghinaglia ed il Ventura fu quindi suo stretto compagno
e collaboratore.
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