Ennio Serventi - Genova, 21 luglio 2001
Da Sturla fino all’antico borgo marinaro di Boccadasse la strada era tutta piena di
gente. Nessuno starter aveva dato il via ma la gente, la tanta gente, si era mossa da sola
forse spinta da quella nuova che i pullman scaricavano in continuazione vicino a quel
campo sportivo. All’incrocio di certe strade della borgata marinara noi avremmo
dovuto incontrarci con altri compagni provenienti da diversi luoghi e con loro
costituire la nutrita retroguardia che, nella strategia dei piani, avrebbe fatto da tappo di
chiusura al corteo. Mancammo quell’incontro strategicamente predisposto; sospinti in
avanti dalla corrente del corteo passammo Boccadasse, ci ritrovammo in corso Italia in
marcia verso il ponente, involontariamente separati dagli altri gruppi di partecipanti
cremonesi.
Procediamo con passo sufficientemente rapido, il ritmo dell’andare rallenterà più
avanti forse per il continuo arrivo di gente nuova che ingigantisce il corteo. Più in là,
molto più in là, alla linea dell’orizzonte in direzione del lontano Palazzo dello sport e
della Fiera Internazionale un fumo come nebbia sale sopra i palazzi. Poco più in alto di
quelle case volteggia e rivolteggia in continuazione un elicottero; diventerà con la sua
presenza e con il continuo assordante e ritmato sempre uguale battere delle pale uno
degli incubi di quella giornata. Nessuno canta, nessuno lancia slogan, si sente il brusio
delle tante parole scambiate e lo strascicare dei passi sul selciato.
Sulla destra un muretto fa da limite ad un profondo prato. Là in fondo, distante dalla
strada, la bassa sagoma di un edificio pubblico, forse una scuola o un ufficio postale.
Uno che ne ha il comando schiera il suo plotoncino di uomini in armi, forse dieci, in
una inutile ostentazione. Carlo Giuliani era appena stato ucciso nel pomeriggio di ieri e
dal corteo, che va diritto per la sua strada, partono fischi. Sono i primi poliziotti o
carabinieri che incontro.
Mi impressiona la differenza dell’aspetto fra questi nuovi tutori dell’ordine e quelli dei
miei ricordi: maschere, elmi con visiere, gambali, scudi grandi e manganelli di
lunghezza raddoppiata, gambe divaricate; fasciati di scuro niente dell’umano del corpo
esce da quelli scafandri. Mi appaiono giganteschi nelle loro divise imbottite. Incutono
timore a guardarli. Noi siamo rimasti quelli di sempre, con le nostre bandiere, i canti e
le grida. Loro no, non sono più quelli di Valle Giulia cari a Pasolini.
Provengono, forse, dalle stesse “trezzere” e tratturi percorsi un tempo dai loro padri
ancora bambini e dai padri dei padri. Avi che andarono con asini e bandiere nelle terre
del latifondo e del demanio, rivendicarono il lavoro e l’assegnazione di quelle terre
incolte alle costituenti cooperative come indicato dai decreti del ministro Gullo.
Ricevettero in cambio anche le scariche di Portella della Ginestra. Storie di padri e di
nonni, non sono più le loro storie, la caserma li ha cambiati.
Davanti a noi quelli che in più file occupano tutta la larghezza della carreggiata
marciano al battere dei tamburi. Il suono è lugubre, ricoperti di nero alzano piccole
bandiere nere, camminano lenti, nell’insieme ricordano medioevali confraternite.
“Questi non mi piacciono” dice la compagna. Noi tre ed altri due compagni siamo
rimasti dietro, tutti gli altri del nostro gruppo sono riusciti a passare. L’elicottero ci
sorvola all’altezza delle case, la strada è larga e dove può si abbassa ancora di più. A
volte ho l’impressione che se ne stia fermo sopra di noi quasi a volerci schiacciare
contro l’asfalto. Il corteo lo fischia.
Procediamo sempre più adagio, dalla nostra sinistra ci arriva l’aria dall’invisibile mare
a mitigare il caldo che comincia a farsi sentire. Dai bassi muretti che contornano
giardinetti condominiali, piccole canne di plastica ci portano l’acqua lasciata
generosamente scorrere.
Il corteo è di nuovo fermo. Nel gruppo dei “neri” sembra esserci un certo scompiglio.
Circola una voce: “dai passate intanto che quelli della Fiom cercano di metterli fuori”.
Ricuperiamo gli altri due compagni che erano a qualche passo da noi, insieme
cerchiamo di infilarci nel piccolo varco che è stato aperto sul marciapiedi, verso il
muro. È questione di un attimo, il varco si richiude, noi non abbiamo la prontezza di
forzare quel blocco fintanto che è ancora debole e veniamo risospinti indietro, ancora
isolati dai nostri.
Si va avanti sempre più lentamente, frequenti e prolungate diventano le soste. Si
infittiscono le ipotesi sulle cause di quel procedere da lumache. Là in fondo, dove gli
elicotteri a volteggiare sono in più di uno ed il fumo sale sempre verso il ciclo, forse ci
sono scontri. Forse sono i “neri” che ora non vediamo, ma presumiamo siano qualche
decina di metri più avanti, a rallentare la marcia.
Cominciamo ad essere preda del dubbio: con quella velocità non riusciremo mai a
raggiungere la piazza dove è prevista la conclusione della manifestazione e
guadagnare i pullman per il ritorno che ci aspettano al parcheggio Marassi. Cerchiamo
di individuare un varco verso la parte alta che, attraverso vie laterali, ci permetta di
raggiungere la piazza. Niente da fare, le scale che portano verso la parte alta della città
sono intasate di gente. Un passaggio si apre dalla parte opposta, quella del mare.
Imbocchiamo quella apertura sperando che la stradina sia sgombra e, camminando
velocemente, ci sia possibile risalire in corso Italia scavalcando gli eventuali intoppi al
corteo. Ci dà ristoro l’ombra delle alte case e l’aria che sale veloce dal mare. Sull’arenile
c’è chi se ne sta disteso al sole. Costeggiamo la fiancata di una piccola chiesa in fregio
alla strada che comincia a risalire e ci ritroviamo nel corteo.
Dei “neri” non c’è traccia ma le soste si fanno sempre più numerose e lo spazio libero
dai corpi sempre più ristretto. La gente da dietro preme arrivando più rapidamente del
procedere del corteo. Cominciamo a percepire un vago senso di “schiacciamento” e la
pericolosità della nostra posizione: se l’avanguardia del corteo dovesse per un motivo
qualsiasi retrocedere rapidamente potremmo anche essere travolti. Non abbiamo
notizie di nessun genere, possiamo solo fare supposizioni. I telefoni cellulari non
funzionano; probabilmente sono state disattivate antenne e ripetitori.
C’è un certo movimento, al lato della strada si fa spazio un folto e compatto gruppo
con bandiere, gente capace di stare in piazza. Sono i Comunisti italiani, forse al loro
interno proteggono i dirigenti del partito e hanno deciso di togliersi da quella
situazione. Il corteo si è fatto silenzioso e nel silenzio il battito delle pale dell’elicottero
è musica di minaccia. È assolutamente indispensabile uscire da lì.
Individuiamo un gruppo che sembra mantenere una certa efficienza organizzativa,
mantenendosi unito all’interno di laterali cordoni protettivi. Sono di Asti. Spiego la
nostra situazione di isolamento e chiedo se possiamo andare con loro. I cordoni si
aprono e ci mettiamo insieme. Da quanto scritto sull’insegna di uno stabilimento
balneare, sappiamo di essere in una località chiamata S. Nazaro. Camminiamo per
qualche minuto poi siamo di nuovo fermi. Inseriti nel gruppo di Asti si attenua per un
momento la sensazione di isolamento, pensiamo di potercela fare, ma con il
prolungarsi della fermata si fa concreto il pericolo di essere travolti da un movimento
rapido e non previsto del corteo.
Sulla sinistra, dal lato del mare, subito dopo l’insegna dei “bagni S. Nazaro, una casa
poggia le fondamenta sopra una sopraelevazione naturale che può essere l’ultima delle
dune di quando da queste parti erano solo spiagge. Sui fianchi della collinetta alta non
più di una quindicina di metri, crescono alberi e vegetazione spontanea. Pur non
essendo di grande altezza, è una posizione che ci permetterebbe di toglierci dalla
strada. Decidiamo e ci mettiamo a fendere il corteo trasversalmente, lo stradone da
attraversare mi sembra di una larghezza infinita.
Non siamo stati gli unici a fare la scelta di salire, le pendici sono un brulicare di
persone, c’è anche chi si porta in spalla la bicicletta. Salire non è facile; lo zainetto sulle
spalle, le mani occupate dalle bandiere con le lunghe aste e dal grande striscione,
quello che non siamo mai riusciti a srotolare, non ci agevolano. Il compagno impreca e
rinnova il suo odio per la montagna, ma riusciamo a salire. Una mano dall’altra parte
tiene alzata la rete di recinzione e noi passiamo sotto. Quelli della casa hanno lasciato
aperta l’acqua dell’impianto di annaffio: possiamo bere, bagnarci la testa e stare
all’ombra. Guardiamo giù verso la strada dove il corteo e ancora immobile sotto il sole
che picchia con forza.
Il cocuzzolo è più ampio di quanto avessimo immaginato, sul retro della casa ci sono
avanzi di cunicoli e di costruzioni in muratura, forse in questo posto, durante la guerra,
era istallata una batteria per la difesa costiera e del porto. Da quel lato la collinetta
strapiomba su di un giardino ed il mare è grande sotto di noi, “è il mare e litorale di
punta Vagno” dice una voce.
L’elicottero è sempre sopra di noi e vola basso, con un braccio che ondeggia fuori
dall’abitacolo il copilota ci fa segno di scendere dove stanno per arrivare quelli che
picchiano. Si sentono delle grida provenienti dalla strada e andiamo a vedere.
Il corteo ha invertito il senso della marcia, precipitosamente cerca di sottrarsi a qualche
cosa di violento che lo investe frontalmente. Le file trasversali non sono più tali e chi
sta dietro viene inevitabilmente travolto da quelli che sopraggiungono tentando di
fuggire.
È come una grande onda che tenta di refluire ostacolata dalla nuova che sopraggiunge
o il conseguente rinculo di un potente colpo di cannone. Scattiamo alcune fotografie.
La nebbia dei lacrimogeni comincia ad avvolgere quelli che stanno sotto e sale verso
l’alto. In fondo, dalla nostra sinistra si vedono le macchine e i furgoni delle forze
dell’ordine che occupano tutta la larghezza della carreggiata. Fra loro e il corteo una
terra di nessuno invasa dal fumo dei candelotti che risale fino a noi, costringendoci a
spostarci. Torniamo a guardare verso il mare.
Il giardino e il litorale che erano sgombri adesso sono invasi. Fin dove si riesce a vedere
c’è gente che precipitosamente è riuscita togliersi dalla strada lasciando uno spazio
vuoto fra chi carica e quelli che scappano. Sul mare, a qualche decina di metri dalla
riva, incrociano lente tre “barche” cariche di uomini, altre, ancora lontane, sono in
arrivo dalla nostra destra. Forse saranno i “i lagunari” del battaglione S. Marco,
anch’essi mobilitati. Il fumo lacrimogeno arriva anche qui, qualche poliziotto ha diretto
il suo tromboncino verso l’alto, c’è chi dice che i candelotti sono venuti dal cielo sparati
dall’elicottero che staziona stabile sopra di noi. Con l’acqua della borraccia bagniamo i
fazzoletti, estrema ed inefficace difesa degli occhi e del naso dall’irritante fumo acre.
Non ci rimane che aspettare quelli con le maschere e i manganelli.
Quando il fumo si dirada torniamo a guardare nelle strada ormai sgombra. Ci sono
solo agenti, si aggirano fra i loro mezzi e a quel che resta delle cose abbandonate da chi
è sono stato costretto a fuggire. Il corteo non si vede più, spezzato in due tronconi si è
probabilmente disperso in opposte direzioni sotto l’incalzare violento della carica
partita dalle parti di piazzale Luther King.
Quando anche gli agenti se ne sono andati decidiamo di scendere. In una specie di
grotta, sul retro della casa, abbandoniamo il grande striscione che non abbiamo mai
srotolato e le due bandiere. Vogliamo evitare di essere presi per portatori di armi
improprie. Andiamo giù, quel che vedo sul lastrico della strada mi ricorda i versi di
Pablo Neruda, “venite a vedere il sangue per le strade,\ venite a vedere \ il sangue per le
strade, \ venite a vedere il sangue \ per le strade” .
Dal portone sovrastato dalla scritta “bagni S. Nazaro” escono, in camice bianco, gli
infermieri di un presidio di pronto soccorso. Parlano di botte e di teste spaccate, ci
indicano in quale direzione dobbiamo andare per arrivare al parcheggio dietro il
carcere di Marassi. Al sottopasso ferroviario, che dovremo attraversare, sembra che gli
scontri siano stati più duri e che non siano del tutto finiti. Ci incamminiamo per delle
strade deserte, incontriamo gente come noi impaurita che si tiene dentro la propria
rabbia.
Arriviamo in un posto con giardini, grandi alberi e scalinate che scendono in una
piazza che sta più in basso. Ci sono altri piccoli gruppi di ragazzi e di ragazze, ma si
rimane separati. Ci fermiamo, le notizie che circolano non sono rassicuranti, il
sottopasso ferroviario è da queste parti e sembra che ci si fronteggi ancora. Passa una
ragazza mingherlina e scura di pelle, si ferma e mi guarda. Porta le dita unite di una
mano alla bocca spalancata, con il movimento della mascella mima l’atto del masticare.
Capisco che ha fame, rovescio il contenuto dello zainetto, divido con lei quel che resta
di un pacchetto di biscotti. Torna dopo qualche minuto, sorride mentre mi allunga un
cartoncino colorato non più grande di un biglietto da visita, poi sparisce per sempre. Il
rosso ed il nero sono divisi da una linea diagonale, tre grandi lettere bianche “CNT”
sovrastano una breve scritta “tu sindicato”. Lo tengo ancora nel portafoglio quel
cartoncino insieme alle altre cose che sempre devono essere portate alla persona.
Quando lo incontro con lo sguardo non posso non pensare a quella sconosciuta
compagna libertaria. Forse dentro di lei vivono ancora i racconti delle marce e delle
battaglie dei contadini catalani di Durruti e il trasmesso ricordo di quanti,
volontariamente accorsero nel suo paese e che “oggi se ne vanno. Molti di loro,
migliaia, restano qui, con la terra di Spagna come sudario”.
Ci rimettiamo in cammino, arriviamo ad un piazzale dove si apre l’imboccatura del
tunnel. Arriva un’autocolonna di poliziotti “scendere, scendere” grida quello che ne ha
il comando. I poliziotti scendono con difficoltà, ostacolati dalle loro attrezzature e dai
varchi troppo piccoli delle macchine. Appena a terra si schierano; poi, improvviso, un
contrordine: “salire, salire” grida sempre quel graduato.
Attraversiamo il tunnel tenendoci contro il muro di sostegno. Qui sotto, come nella
piazza successiva, i segni delle cariche sono evidenti. All’angolo di una strada, sulla
nostra sinistra, uno piange e preme il fazzoletto sulla fronte. Raccogliamo le sue cose
sparse tutt’intorno, pezzi di macchina fotografica con il negativo asportato. Dice che
sarebbe certamente morto se non fosse stato per l’intervento di un terzo agente.
Ci rimettiamo in marcia costeggiando il torrente Bisagno che, chissà perché, mi sembra
un oasi di pace.
Raggiungiamo il parcheggio, siamo gli ultimi ad arrivare, mancavamo solo noi per
dare il segnale della partenza.
Ennio Serventi
Pubblicato originariamente nel 2008 su oraSesta, il blog di Teréz Marosi.
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